Walking on the moon

Walking on the moon

Foto di Federico Borselli

[Foto di Federico Borselli]

Ai nostri passi fa eco un lieve scricchiolio di aghi di pino secchi e altri, imprecisati, residui. C’è un silenzio inusuale, che stona là, dove le orecchie sono abituate a sentire in questo periodo dell’anno il frinire delle cicale.

Persino Alessandro – che di solito incalza, indomito e curioso, con decine di domande e commenta le tue risposte in un incessante flusso di pensieri, spesso molto più profondi e accurati di quelli che tu, adulto, ti poni durante la giornata – è ammutolito, di fronte al paesaggio spettrale che ci accoglie.

“Ale, guarda mi immagino che potrebbe essere così la luna”, dico per rompere quell’immobilità e cercare di rassicurare il bimbo di quasi sei anni che mi cammina vicino, nella mia mano dal palmo sudato la sua piccola, gelida. “No, mamma non può essere così la luna”, risponde serio. “Non ci sono alberi, nemmeno morti come questi, e in terra quindi non potrebbero esserci aghi di pino. E poi sulla luna non c’è mica la cenere”.

Ha ragione Ale: quello che banalmente viene da definire un paesaggio lunare di selenico ha ben poco. Ha i colori, invece, dell’assenza di speranza, della fine di un piccolo mondo che fa parte della mia vita da quando ho memoria.

Ricordo un pomeriggio di domenica, la camicetta a quadri infilata nei jeans che mi faceva sentire tanto grande, a raccogliere ciclamini fucsia dai bordi del sentiero. Valentina ancora non era nata, e io avrò avuto, più o meno, quattro anni. L’odore di umido e di rosmarino nelle narici, le punta delle dita annerite dalla polvere scura della pineta. Il tentativo di individuare punti di riferimento – come mi avevano insegnato i miei, per non perdermi – che si vanificava tutte le volte che, cogliendo un fiore, mi distraevo, e l’attesa di trovare una radura – ricordo che avevo proprio questa parola in testa, la “radura” come quella che raggiunge Biancaneve durante la sua fuga dalla matrigna cattiva – per stendere il plaid verde e fare merenda.

“Mamma, ma dove sono andate le tartarughe e le lucertole e gli scoiattoli e tutti gli altri animali? Sono scappati prima del fuoco?”. Alessandro mi riporta alla realtà e rapida arriva la scelta da fare: rispondo la verità o la addolcisco un po’? Opto per la sincerità, perché ogni omissione può essere, con Alessandro, un dettaglio su cui ti inchioderà anche a distanza di giorni, per dimostrare che spesso anche mamma e babbo sbagliano o che, per lo meno, non sono sempre sinceri. “Alcuni sono scappati, certo, e si sono rifugiati in altri punti del bosco”, dico poco convinta. “Ma alcuni sono morti, vero?” chiede Ale, un filo di voce. “Sì, tesoro, alcuni sì. Quelli più lenti, per esempio, quelli che sono stati sorpresi dal fuoco…” “Quelli – finisce lui la frase – che sono rimasti intrappolati dalla lingue di fuoco, come succede ai saltatori prima dell’arrivo di Dusty”. Dusty è il personaggio di un libro tra i preferiti di Ale, che abbiamo letto incessantemente nell’estate di tre anni fa e abbiamo poi abbandonato per letture più gradevoli, anche per chi è costretto, sera dopo sera, a farle ad alta voce con tanto di dialoghi recitati. Come sia tornato a portare il suo eroico esempio nella mente di Ale, è uno dei misteri dell’infanzia che non saprò mai spiegare.

“Sono preoccupato mamma – riprende Alessandro, dopo qualche minuto di silenzio – perché credo che le tartarughe, lente come sono non siano riuscite a scappare”. “Ma sì Ale, non ti preoccupare. Magari si sono rifugiate da qualche parte e quando i pompieri hanno spento il fuoco sono potute andare con calma a cercarsi un nuovo posto”. “Mmm. Non so. Anche perché se sono bruciate TANTO non troveremo nemmeno il loro cadavere oggi”.
Mentre questa conversazione surreale riecheggia nel sentiero, un tempo fiancheggiato da diversi toni di verde e marrone – dal verde scuro del sottobosco al chiaro delle foglie nuove, al verde tendente al viola di alcuni tipi di asparagi, dal marrone nerastro dei tronchi a quello giovane delle pigne – mi ricordo a spasso con Maya ancora piccola, scattante nella sua pelliccetta focata, che indisciplinata giocava a nascondersi e farsi ritrovare. E ogni volta che per qualche secondo non ricompariva, un tuffo al cuore e il pensiero “Oddio, si è persa”.

Adesso Maya retrocederebbe spaventata di fronte a questo scempio. E non sarebbe solo la fatica che ci mette a muovere ogni passo, la mia piccola beagle che adesso, a quindici anni suonati, ha il muso imbiancato, ma lo spaesamento di non sentire più nessun odore, se non questo sentore di legno arso, di terra ferita, di vita trasformata in niente.

“Mamma, con la mia associazione voglio ricostruire la pineta”. Ecco il mio piccolo sole che interrompe il flusso cupo di pensieri. “Potrei rimandare la costruzione del campo da calcio in piazza del Sale e ripiantare tutti gli alberi”. Alessandro da tempo coltiva il sogno di fondare un’associazione che, nella sua fantasiosa testa, è una ditta edile, un centro sportivo, una casa, uno studio di comunicazione, un editore e, ovviamente, una grandissima sala giochi. Passa le ore a disegnare progetti, scrivere liste, e organizzare per la fine dell’estate la cena di presentazione dell’associazione. Di cui ancora, però, non ha trovato il nome perché niente gli sembra adatto a descrivere l’ambizioso progetto e perché si sente in dovere di ascoltare il parere dei suoi amici, che dalla fine della scuola materna non ha ancora rincontrato.

“Buona idea Ale, dobbiamo fare un piano”, dico sorridendo. Sperando che l’entusiasmo del da fare gli faccia sparire quello sgomento dal faccino.
“Quando babbo era piccolo, proprio qui, in mezzo alla pineta c’era uno spiazzo. Il resto di un incendio di tanti anni prima. E i bambini venivano a fare i salti in bicicletta su dei cumuli di sabbia”, racconto. Nell’inverno marinese i bimbi di quaranta anni fa crescevano liberi di esplorare la pineta, di muoversi senza il controllo assiduo dei genitori. Un’epoca ormai lontana, soprattutto se paragonata alla nostra sollecita presenza: noi genitori tra i trenta e quaranta che non facciamo muovere un passo ai nostri bambini senza il nostro occhio vigile e, soprattutto per quanto mi riguarda, piuttosto severo. “Fico!”, commenta Ale, che però si fa serio subito e commenta: “Se non mi decido a levare le routine i salti non li posso fare”. Con la promessa che nei prossimi giorni di libertà dal lavoro lo aiuterò a superare questo piccolo scoglio, ci lasciamo alle spalle quel che resta della pineta. Nelle sue chiacchiere su come e dove dovremmo provare la bici senza sostegni lascio andare piano la tristezza che mi si è annidata nel torace. E mi sembra di sentire dietro di me le cicale.

 

 

Il racconto è stato pubblicato dal Tirreno, edizione di Grosseto, il 4 aprile 2020