L’alluvione del ’66 e la scelta di Wolf, ingegnere del Genio civile

L’alluvione del ’66 e la scelta di Wolf, ingegnere del Genio civile

GROSSETO. La mattina del 4 novembre 1966, tra le 7.30 e le 8 Wolf si alza più tardi del solito. E’ giorno di festa e se la prende comoda. Prepara il caffè per la famiglia e, in attesa che sia pronto, alza la serranda del balcone della cucina, nell’appartamento di via Adige.  “L’Ombrone è straripato”, è il grido che sveglia tutti gli altri: la moglie, la sorella e le figlie Anna e Diana. “Accorriamo alla finestra – racconta Diana – e lo spettacolo è agghiacciante: la campagna dietro via Adige è coperta di acqua e fango”. L’acqua lambisce le cantine del palazzo – che dovranno poi essere svuotate – ma per fortuna non è salita al pianterreno, perché l’edificio si trova nella parte più alta della strada, sulla leggera salita all’imbocco di via Adige.

Non c’è caffè per Wolf, che dopo dieci minuti viene fatto salire su un gommone dei vigili del fuoco che percorreva, da piazza Volturno, il fiume di fango su viale Ombrone. “Lo accompagnammo con lo sguardo, affacciati dalle finestre di via Adige”, ricorda Diana. “Per fortuna il Maggiolino, parcheggiato per strada era salvo, e servì a Wolf, nei mesi successivi, per percorrere gli argini devastati dei dintorni di Grosseto nei suoi continui sopralluoghi, permettendogli, con la sua robustezza da carro armato, di uscire incolume da discese impervie e smottamenti”. Wolf, l’ingegner Wolfango Bosco del Genio civile di Grosseto, era mio nonno. E da quella partenza sul gommone dei vigili del fuoco tornò tre giorni dopo, portando con sé un ospite del ricovero “Ferrucci” – l’attuale casa di riposo – che rimase con mia madre, allora adolescente, e la sua famiglia per alcuni giorni, finché i suoi parenti non furono in grado di occuparsi di lui. E i ricordi di famiglia sull’alluvione, raccontanti a me bambina centinaia di volte, diventano da questo momento in poi, ricordi di una comunità.

“Noi giovani, cresciuti nel dopoguerra e nel boom economico  – ricorda Diana, la mia mamma –  vedemmo per la prima volta disperazione e miseria, conoscemmo l’abnegazione di tanti e partecipammo al sentimento di solidarietà di tutti i grossetani che si rimboccarono le maniche per rimettere in sesto una città distrutta”.
Dopo quel 4 novembre Wolfango Bosco, con i suoi collaboratori del Genio civile, si mise al lavoro per mettere in sicurezza Grosseto dalla minaccia del fiume Ombrone. “Nei mesi a venire – ricorda ancora Diana – sentimmo per la prima volta parlare dell’idrometro del Berrettino, di Ponte Tura, della portata massima del fiume, che nella piena del ’44 era stata di 2400 metri cubi al secondo e che quella volta, nel ’66, fu di 4500”.

Mio nonno, infatti, si mise al lavoro per eliminare il canale Diversivo. Sosteneva che se si fosse verificato un evento simile a quello del 3 e 4 novembre, la presenza del Diversivo avrebbe messo in serio pericolo l’abitato cittadino che era, allora, compreso tra il canale a nord, gli argini dell’Ombrone a sud e la ferrovia a ovest. Una tesi non condivisa dalla maggior parte dei tecnici che, anzi, ritenevano che il Diversivo fosse fondamentale per far defluire le acque dell’Ombrone in piena. Se le idee dell’ingegner Bosco furono portate avanti fu anche grazie al sostegno del Comune di Grosseto e alla caparbia convinzione dell’allora assessore ai Lavori pubblici Rosario Ginanneschi. Le osservazioni e le ricerche che mio nonno condusse con il suo staff portarono il Ministero a revocare il parere di ammissibilità espresso sul ripristino del Diversivo come scolmatore di piena e ne sancì la dismissione, finanziando anche i lavori di rialzamento e riempimento degli argini. La chiusura del Diversivo consentì l’espansione della città a nord, in una zona prima impensabile e adesso, a cinquant’anni di distanza, così tanto popolata.

Sotto la sua direzione, il settore idraulico del  Genio Civile eseguì il recupero delle opere idrauliche danneggiate nel resto della provincia: non solo sul fiume Ombrone – a Ponte Tura, Istia e Paganico -, ma anche sul Bruna, il Sovata, il Pecora, l’allacciante di Scarlino. I progetti dell’ingegner Bosco, che lavorò con competenza e passione per questa sua terra di adozione che tanto amava, sono stati portati avanti anche quando, per una grave malattia, abbandonò il lavoro.

Clelia Pettini
dal Tirreno, edizione di Grosseto, del 25 ottobre 2016